L’impegno della Fondazione Neuroblastoma per la ripartenza: il punto con il presidente Lanino

Intervista ad ampio raggio, tra cose fatte e piani da rilanciare, tra riflessioni scientifiche e ricordi di umanità

Dottor lanino foto con bambina Genova, 11 febbraio 2022 – I filoni di ricerca della linea programmatica tracciata a partire dal 2022 come “momento di ripartenza”; il significato concreto di “sostegno alla ricerca” tradotto ad esempio nella valorizzazione dell’impegno dei giovani. E ancora: la funzione dei trapianti e le nuove frontiere in materia. E poi: il ricordo di bambine e bambini, di mamme e papà, umanità incontrate negli anni di lavoro al “Gaslini” di Genova, dove prima del pensionamento ha diretto il Centro trapianto midollo osseo. Racconta e si racconta ad ampio raggio il pediatra ed ematologo Edoardo Lanino, presidente della Fondazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma.

Quali obiettivi prioritari mette in campo la Fondazione per il 2022 e per il medio e lungo periodo?

“L’ultimo biennio è stato purtroppo caratterizzato dalla pandemia da Covid-19 e da tutto ciò che ne è conseguito anche per il terzo settore, con contrazione delle attività e delle risorse che la Fondazione Neuroblastoma (FNB) ha potuto erogare alla ricerca. In prospettiva, il 2022 si pone come momento di ripartenza. La FNB opera le proprie scelte cercando di privilegiare sinergie con altre organizzazioni che perseguono il medesimo scopo e tenendo in considerazione le suggestioni del comitato tecnico-scientifico della stessa fondazione, i cui membri rappresentano i centri di eccellenza nella ricerca clinica e di base sul Neuroblastoma e le neoplasie cerebrali pediatriche.

La priorità, forse ovvia, rimane la guarigione, obiettivo purtroppo non scontato se si considera che ancora oggi meno della metà dei bambini con malattia metastatica la raggiunge. Con questa missione, la FNB continuerà a sostenere il progetto di coordinamento della ricerca clinica e traslazionale, da considerarsi propedeutico ad ogni altro progetto in quanto garantisce la centralizzazione dei dati clinico-biologici e del materiale biologico (tumorale e non, custodito in una bio-banca) per caratterizzarlo in modo omogeneo e renderlo fruibile per altri progetti di ricerca, ed un progetto di respiro europeo che mira all’identificazione delle alterazioni genetiche che portano all’insorgenza della malattia ed allo sviluppo di farmaci “intelligenti”, specificamente costruiti per spegnere l’attività di geni coinvolti nella degenerazione neoplastica.

In questa ottica innovativa di medicina personalizzata si è posta molta attenzione, e ovviamente speranza di una rapida traslazione clinica , su progetti basati sull’immunoterapia, sia tramite nuovi anticorpi monoclonali coniugati con farmaci citotossici che su cellule ingegnerizzate per colpire bersagli specifici, e sulla medicina di precisione, basata sulla identificazione di mutazioni che intervengono nel genoma tumorale nel corso della sua storia naturale e la costruzione di farmaci mirati a colpirle selettivamente. Sono progetti affascinanti, che costituiscono il futuro non solo della terapia del neuroblastoma, ma dei tumori in genere”.

Quando si parla di “sostegno alla ricerca”, spesso si resta su un piano astratto, dimenticando il significato pratico di questo aiuto. Può farmi qualche esempio di cosa vuol dire incoraggiare la ricerca?

“La risposta rapida e fin troppo facile potrebbe essere: circa 25 milioni di euro raccolti dall’Associazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma ed erogati dalla FNB a vari enti e istituti di ricerca in quasi trent’anni di storia di queste due organizzazioni. Però ha ragione, non è sufficiente: la trasparenza e la rendicontazione sono un dovere morale che ogni Onlus, direi ogni ente in genere, ha nei confronti dei donatori.

Tutti questi dati sono accessibili sul nostro sito web. Di più: la Fondazione ha sempre cercato di privilegiare il finanziamento di risorse umane, giovani medici e ricercatori coinvolti in progetti specifici, e garantirne la continuità nel tempo in attesa, talvolta vana, che arrivasse la stabilizzazione da parte dell’ente di appartenenza.

Inoltre, la fondazione ha sostenuto un intero laboratorio di ricerca dedicato al neuroblastoma, prima a Genova e poi a Padova, alla cui guida per molti anni è stato Gian Paolo Tonini, che purtroppo ci ha lasciati proprio in questi giorni. Mi vengono poi in mente la campagna “Adotta un Ricercatore”, che ha portato alla scoperta del gene “ALK”, nei confronti del quale sono poi stati identificati dei farmaci inibitori specifici entrati nell’uso clinico, i vari corsi di specializzazione e dottorati di ricerca che si sono succeduti negli anni e saranno finanziati anche nel prossimo triennio.

Ma non possiamo dimenticare il sostegno alla produzione e sperimentazione dell’anticorpo monoclonale anti GD2, attuale cardine del trattamento delle forme avanzate, fino al sostegno per la copertura dei costi necessari per l’attivazione dei più moderni ed efficaci protocolli di cura, senza il quale non sarebbe stato possibile garantire ai bambini italiani il miglior trattamento disponibile”.

Lei è stato direttore del Centro trapianto di midollo osseo al “Gaslini” di Genova. Quindi le chiedo in quali casi è opportuno ricorrere a questo tipo di trapianto per i pazienti in età pediatrica colpiti da Neuroblastoma.

“Occorre subito fare una precisazione. Quando parliamo di trapianto di midollo osseo, o più correttamente di cellule staminali emopoietiche (CSE), nel Neuroblastoma parliamo di autotrapianto, cioè le cellule sono dello stesso paziente (trapianto autologo) e non provengono da un donatore (trapianto allogenico).

Si tratta di una metodica introdotta nella prima metà degli anni ottanta ed entrata nell’uso corrente, anche se soltanto molti anni dopo uno studio americano ha dimostrato la sua superiorità rispetto ad una chemioterapia più prolungata. Il razionale del suo utilizzo consiste nella possibilità di erogare una dose molto elevata di farmaci, che sarebbe letale per il nostro midollo osseo, di sfruttarne l’efficacia antitumorale e poi di recuperare la funzione del midollo osseo grazie alla infusione delle cellule staminali emopoietiche dello stesso paziente, prelevate in precedenza e criopreservate per mantenerle vitali a lungo.

Da oltre trenta anni, con migliorie via via introdotte e riduzione degli effetti tossici sia acuti che a lungo termine legati alle alte dosi di chemio, l’autotrapianto di CSE è una tappa fondamentale del percorso terapeutico di prima linea di tutti i bambini con neuroblastoma ad alto rischio, cioè negli gli stadi avanzati o con caratteristiche biologiche sfavorevoli, ed ha consentito di migliorare la probabilità di guarigione”.

Che ruolo ha avuto la ricerca per il miglioramento dell’efficacia dei trapianti di midollo osseo rispetto ai pazienti in età pediatrica affetti da Neuroblastoma?

“Come in tutti i percorsi terapeutici la ricerca, prima di base e poi applicata alla clinica, è stata fondamentale anche nel trapianto. Quando si è iniziato, sfruttando le esperienze in altre malattie, prevalentemente ematologiche, la terapia di preparazione era costituita da irradiazione corporea totale associata a chemioterapia; la tossicità su tutte le cellule del corpo umano era elevatissima, con rischio anche elevato di mortalità nei primi giorni dopo il trapianto.

Per la prima volta abbiamo però potuto vedere, anche se purtroppo pochi, dei bambini guarire dal neuroblastoma in stadio avanzato. Con la loro crescita abbiamo però anche visto quanto gravi potessero essere gli effetti a distanza sull’organismo, in termini di difetti di crescita, disturbi endocrini e neurologici, sterilità, secondi tumori… Insomma, il prezzo era molto alto, ma solo il tempo ci ha permesso di verificarlo.

Con gli anni sono cambiate molte cose, sono arrivati nuovi farmaci più efficaci e meno tossici, si è abbandonata la radioterapia su tutto il corpo (TBI), si è capito che le cellule staminali potevano essere raccolte anche dal sangue periferico senza dover ricorrere al prelievo midollare in anestesia generale, è migliorata tutta la terapia di supporto, si sono confrontati in modo scientificamente corretto diversi regimi di chemioterapia ad alte dosi pre-trapianto, potendone via via selezionare il più efficace e meno tossico. Tutto grazie alla ricerca.

Nel frattempo, i protocolli di cura sono passati da monoistituzionali (cioè di singoli centri di ricerca) a nazionali ed ora multinazionali, e di conseguenza i tempi per avere risposte dai quesiti che la ricerca si pone si sono molto ridotti, soprattutto pensando ad una patologia rara come il neuroblastoma. In questo momento si sta valutando a livello internazionale se due successivi cicli di chemioterapia ad alte dosi seguiti da autotrapianto diano un vantaggio di guarigione rispetto ad uno soltanto”.

Ci sono progetti di ricerca volti ad apportare altre migliorie su questo specifico versante?

“Certamente sì. Poco sopra accennavo al fatto che nel Neuroblastoma si utilizza l’autotrapianto e non il trapianto allogenico. In realtà la strada allogenica è stata percorsa sin dai primi anni, anche se con numeri limitati perché pochi bambini disponevano di un donatore familiare compatibile. Nessuno studio ha dimostrato la sua superiorità rispetto all’autotrapianto, anzi, la tossicità e gli effetti collaterali erano superiori e l’effetto immunologico dell’allotrapianto, ben noto nelle leucemie e altre patologie ematologiche, nel Neuroblastoma non sembrava rilevante.

Neppure uno studio successivo, italiano, che ha utilizzato donatori volontari adulti reclutati tramite i registri internazionali dei donatori di midollo ha avuto i risultati sperati. La strada della ricerca sul trapianto allogenico si sta ora muovendo verso il trapianto da familiare aploidentico, utilizzando cioè un donatore parzialmente compatibile, in genere un genitore, eventualmente combinato con la successiva infusione di particolari linfociti dotati di attività citotossica sulle cellule di Neuroblastoma.

È una strada molto complessa e difficilmente riproducibile su ampia scala perché le tecnologie utilizzate sono molto complicate e costose e dunque non alla portata di tutti i centri, ma certamente questa via darà ulteriori spunti di sperimentazione. L’augurio pertanto è che quanto prima si possano abbandonare chemioterapia, radioterapia e trapianto, anche se temo non succederà molto presto ed il processo sarà graduale. Per quanto il paragone possa sembrare esagerato, quando succederà vorrà dire che avremo smesso di usare armi grossolane ed aspecifiche e avrà vinto la medicina di precisione”.

Al di là degli aspetti medico-scientifici, c’è da considerare il lato umano della sua professione. Dunque le chiedo cosa le è stato d’aiuto per entrare ogni giorno in relazione col dolore dei suoi piccoli pazienti e dei loro famigliari.

“Vede, io credo di appartenere ad una generazione per certi versi privilegiata. Quando ho cominciato ad occuparmi di oncologia pediatrica, e poi di trapianto, si era agli albori della disciplina. Si cominciava finalmente a vedere qualche bambino guarito e le terapie riuscivano in molti casi a far regredire i tumori e in qualche caso a non farlo ritornare.

Il trapianto era una procedura del tutto nuova, da scoprire giorno per giorno, insieme ai bambini, alle loro famiglie, e ovviamente ai colleghi con cui si condividevano le esperienze, belle e meno belle, sempre in discussione ed in evoluzione. Era un vero lavoro di squadra, con il bambino e la sua famiglia al centro di tutto.

Non c’erano fortunatamente solo dolori, momenti difficili sì, ma anche gioie incredibili, situazioni che pensavi senza speranza che invece si risolvevano. Ecco, questo credo sia stato sempre di grande aiuto: sapere che ci sono dei limiti, che sia tu che la medicina ne hanno, ma che non bisogna mai perdere la speranza. E poi i bambini sono meravigliosi, sempre, loro sono il vero aiuto”.

Quali ricordi mette al primo posto e tiene stretti a sé rispetto alla sua esperienza al “Gaslini”?

“Il rapporto con i bambini e le loro famiglie. Conservo i loro disegni, i bigliettini, le lettere delle mamme e dei papà. Sentirsi per telefono o per mail a distanza di decenni, con bambini che sono diventati genitori e genitori che non hanno più i loro bambini”.

C’è un messaggio, un consiglio, che vorrebbe dare alle giovani e ai giovani che hanno scelto la sua stessa strada professionale?

“Difficile dare consigli, ognuno ha le sue motivazioni. Come dicevo prima mi ritengo privilegiato, dal punto di vista epocale, perché l’attività trapiantologica e la mia professionale si sono sviluppati in contemporanea, tutto era una scoperta, un mondo nuovo dove non c’era in casa “l’esperto”, solo il collega più anziano o quello più amico con cui condividere. Ecco, forse il consiglio è di saper essere umili, consci che tutti hanno dei limiti, e di saper ascoltare”.

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Intervista di Francesco Ciampa, giornalista, ufficio stampa freelance per Fnb